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Scritto da Paola Trivella   
Mercoledì 29 Ottobre 2014 21:59

Scoprire la scrittura in modo diverso

fote: la scuola di mafalda
Giocare sulle motivazioni nell’apprendimento della lettura e della scrittura, rispettare i ritmi individuali di ciascun bambino, creare un clima disteso, abbandonare i libri di testo preferendo una biblioteca magari plurilingue, incoraggiare i bambini ogni giorno nei loro sforzi, formare gruppi di conversazione, ma soprattutto lasciarli “scrivere” nella loro lingua (Gabriele in “gabrielese”, Archanah in “archanese”, Sami in “samiese”…) e leggere insieme alcuni libri per reinventare il finale. Scoprire la lettura in modo diverso significa porre le basi per costruire piccole comunità inclusive, creative, accoglienti. A scuola e fuori

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Angela Maltoni*

Da dove sono partita

Per anni sono stata un’insegnante precaria, “ruotando” senza potermi mai fermare su un’infinità di classi in tante scuole diverse. Sicuramente questo ha contribuito in maniera determinante alla mia formazione professionale, perché mi ha dato l’opportunità di osservare realtà variegate e di operare in attività e aree disciplinari variabili. Non ancora in ruolo ma con incarichi che poco alla volta mi concedevano un più ampio respiro temporale, mi sono ritrovata con un libro di testo e un metodo d’insegnamento standard.

Mi era capitato di sentir parlare di scuole che sperimentalmente avevano sostituito i libri con una biblioteca scolastica, e la cosa mi entusiasmava molto. Da quando ho iniziato a lavorare nella mia attuale scuola – un Istituto Comprensivo
a forte processo migratorio – ho dovuto sempre più spesso adattare le attività alle esigenze degli alunni neo arrivati. In quegli anni – eravamo all’inizio del 2000 – nel mio Istituto, oltre a un tessuto culturale deprivato, c’era anche un’altra emergenza: il “codice rosso”, che scattava a ogni arrivo in corso d’anno di bambini immigrati. Una continua emergenza di alfabetizzazione che complicava ulteriormente le cose, impedendo di lavorare alla valorizzazione delle culture e delle lingue dei nuovi arrivati. Oltretutto l’adozione del libro di testo mi obbligava a semplificare o ampliare argomenti trattati in modo non adeguato rispetto al contesto nel quale operavo.

All’epoca non tralasciavo mai la grammatica, che proponevo fin dalla prima. Nonostante tanta attenzione e fatica, mediamente nelle mie classi quasi la metà dei bambini sviluppava scarse capacità linguistiche, aveva difficoltà specifiche di apprendimento o, più sempli- cemente, si mostrava poco motivata all’apprendimento.

Dopo essermi a lungo interrogata e documentata su cosa ci fosse di sbagliato, sono arrivata alla conclusione che probabilmente il metodo utilizzato, compresa l’introduzione precoce della grammatica, non fosse adatto a “quei” bambini. La lettura delle ricerche di Emilia Ferreiro e Ana Teberosky (1985) mi ha dato una grande spinta nella ricerca di un metodo “rispettoso” delle esigenze dei bambini. Anche la conoscenza delle teorie di Paul Le Bohec (2006), allievo di Célestin Freinet, mi ha aiutato a riflettere sul significato di alfabetizzare e il metodo da utilizzare.

Verso la fine dell’ultimo ciclo “normale” ho iniziato ad approfondire la questione cercando, tra i diversi metodi, quello più attento ai tempi dei bambini e più adatto all’utenza della mia scuola. L’alto numero di alunni non italofoni di prima e di seconda generazione mi ha offerto lo spunto per creare una classe sperimentale dove tutti i bambini potessero svolgere attività per valorizzare le lingue e le culture d’origine. L’ipotesi era che, una volta libera di adottare proposte educative più flessibili, avrei potuto aiutare bambini tanto diversi a costruirsi almeno una parte di quegli strumenti necessari per “leggere” la società futura. Con l’obiettivo finale di costruire una classe coesa e affiatata è nato il “Curricolo Interculturale”, inteso ad abbracciare tutte le materie di studio in un’ottica globale, aperta all’intercultura e alla multicultura, per superare alcuni preconcetti e pregiudizi attraverso la condivisione dei vissuti personali. In questo contesto la lettura e la narrazione sono intese come mezzo per comunicare e per discutere, e ogni argomento è affrontato dal punto di vista della riflessione interculturale (Maltoni 2013).

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La scelta del Metodo

È nato così il Progetto Sperimentale “Insieme per un fu turo più equo”, e la scelta per l’insegnamento della lettura e della scrittura è caduta sul Metodo Naturale ispirato alla pedagogia di Celestin Freinet opportunamente adattato al contesto in cui operavo. Delle teorie di Freinet è stato accolto il principio della centralità attribuita alla motivazione nell’apprendimento della lettura, connessa all’idea che essa debba svilupparsi sulla base dei reali bisogni e interessi dei bambini; così come la valorizzazione della scoperta spontanea e il rispetto dei ritmi individuali di ciascun bambino. Del resto, come sostenuto da Bruna Campolmi, questa pratica definita “Metodo Non Metodo” è particolarmente adatta a quelle classi in cui sono presenti bambini diversamente abili o con difficoltà di apprendimento, oppure di recente immigrazione. La valorizzazione di tutte le diversità permette così di creare un clima positivo e accogliente, in grado di garantire a tutti la possibilità di esprimersi e di comunicare senza ansia o timori (Campolmi – Carloni 2010). Il Metodo Naturale è stato quindi rivisto e modellato secondo le mie peculiarità e sulle esigenze della classe, sulla base della convinzione della sua bontà in contesti educativi come quelli in cui mi ero trovata e continuo a operare. Una condizione, quest’ultima, che ritengo essenziale per poterlo applicare nelle nostre classi. È lo stesso Freinet a ricordare che «un buon metodo non deve essere né esclusivamente globale, né analitico: deve essere vivo, con un ricorso equilibrato e armonioso a tutte le possibilità che il bambino porta con sé, ostinato nel superarsi, nell’arricchirsi, nel crescere» (Le Bohec – Campolmi 2001, p. 61).

Una volta trovato il metodo giusto ho iniziato a lavorare molto più serenamente di prima. I bambini con questa impostazione didattica si sentono molto più liberi nella scoperta della scrittura, di sperimentarne la tecnica nei tempi e nei modi a loro più consoni. E riescono da soli a utilizzare in modo del tutto naturale la scrittura. Questa impostazione li motiva tantissimo, anche se parallelamente da parte dell’insegnante si rendono necessari stimoli ben diversi rispetto a quelli usati comunemente. Occorre infatti rivedere completamente il modo col quale si insegna; bisogna mettersi giornalmente “accanto” a loro, abbandonare il libro di testo, attuare una serie di strategie per stimolare il desiderio di imparare.

Scrittura e Scuola dell’Infanzia

Verso la fine del primo ciclo di sperimentazione – e in previsione di ripartire con una nuova classe sperimentale – ho pensato di coinvolgere precocemente in attività legate al Progetto i bambini che stavano frequentando la scuola dell’infanzia. Avevo l’esigenza di capire meglio alcune dinamiche di apprendimento proprie dei più piccoli. La ricerca, durata due anni, mirava a osservare la scoperta della scrittura spontanea per capire a che punto della concettualizzazione della lingua scritta si trovassero i bambini. Con il supporto iniziale degli alunni della mia classe quarta ho proposto attività di “continuità precoce” con i piccoli di quattro anni e successivamente con quelli di cinque coinvolgendoli con esercizi di scrittura spontanea stimolati dalla narrazione di un testo inventato dai “grandi” e raccontato con la tecnica del Kamishibai. Successivamente ai bambini di cinque anni ho proposto la scrittura di parole monosillabiche, bisillabiche e trisillabiche per valutarne il livello. Al termine di questo percorso le differenze sono risultate tante e interessanti: infatti, come ricorda Pollam, «bambini della stessa età, in base alla loro esposizione alla lingua scritta, possono trovarsi a livelli diversi di concettualizzazione. L’obiettivo ovviamente non è quello di anticipare, ma di favorire tale processo attraverso la creazione di un ambiente stimolante e l’attivazione di proposte che tengano conto di quella eterogeneità cognitiva che i bambini di una classe esprimono» (Pollam 2001 p. 11).

In questa fase mi sono resa conto di quanto la scuola dell’infanzia, soprattutto organizzata con classi eterogenee, non sia impostata per proporre un avvio alla scrittura “rispettoso” della normale evoluzione del bambino. “Far scrivere” bambini di tre/quattro anni è solitamente inteso come alfabetizzarli a un codice a cui ancora non sono pronti. Per questa ragione vengono spinti ad attività di copiatura spesso “senza senso” o limitati al solo disegno. Anche l’ambiente non è attrezzato con adeguati stimoli e la lettura da parte dell’insegnante è un’attività sporadica. Tutto questo – come mi ha personalmente confermato in un recente incontro la psicopedagogista Ana Teberosky – è penalizzante per i bambini, che arrivano alla scuola primaria poco pronti alle attività di scrittura. Il vero significato dell’uso precoce della scrittura spontanea è quello di convincerli a essere liberi di esprimersi utilizzando le modalità operative che preferiscono e che hanno interiorizzato fino a quel momento, senza forzarli a usare un codice convenzionalea loro sconosciuto. Negli ultimi decenni Pontecorvo e Zucchermaglio hanno analizzato i rapporti tra competenza metalinguistica e processo di apprendimento della scrittura e della lettura, arrivando alla conclusione che il livello raggiunto dai singoli bambini all’ingresso nella scuola primaria è un indice predittivo particolarmente significativo rispetto ai futuri successi nell’apprendimento in ambito linguistico. È notevole quindi l’incidenza della scuola dell’infanzia e dell’ambiente circostante nello stimolare il bambino nel processo di avvicinamento al “mondo delle scritte”, facilitandone la riflessione metalinguistica. Freinet, precorrendo i tempi, ha analizzato il percorso per arrivare alla mèta: «Il bambino passerà, dai quattro ai sette anni, senza esercizi sistematici, dal linguaggio parlato al linguaggio scritto, facendo la scoperta della struttura della lingua scritta con l’aiuto del metodo naturale» (Freinet 1978, p. 50). In questo lavoro mi sono state di grande aiuto le teorie di Emilia Ferreiro e Ana Teberosky, che forniscono una preziosa chiave di lettura rispetto allo stadio di concettualizzazione della lingua in cui si trova il singolo bambino. «Imparare a scrivere non può essere considerato un processo discontinuo, un brusco passaggio da un non sapere al sapere. Quando a scuola i bambini vengono esposti per la prima volta ad un’istruzione formale si trovano in qualche punto di un’evoluzione cominciata molto tempo prima» (Zucchermaglio 1991, p. 41).

Verso la conquistadel codice

Ho potuto verificare come – per formulare le ipotesi e comprendere il significato delle scritte – i bambini seguano una successione ordinata di modelli concettuali secondo una regolarità che scandisce storie evolutive articolate in fasi e livelli. Questo importante lavoro, svolto quotidianamente, è lungo e faticoso ma estremamente interessante perché il bambino viene sollecitato a esprimersi con la “sua” scrittura e seguito individualmente per decifrare ciò che ha elaborato. In questa fase l’insegnante funge da “scriba”, permettendo alla “non scrittura” di assumere valore convenzionale oltre che essere stimolo per l’acquisizione del codice. Parallelamente si riesce a controllare e valutare il livello di concettualizzazione della lingua scritta. È fondamentale in questa fase che il bambino sia supportato e che i suoi progressi, anche se minimi, vengano incoraggiati in modo da renderlo partecipe del percorso che sta affrontando e della méta che si appresta a raggiungere. Soprattutto all’inizio, alcuni devono essere costantemente incoraggiati e tranquillizzati perché si rifiutano di scrivere o di leggere adducendo la scusa di non esserne capaci. In questo delicato frangente ho usato la tecnica, suggerita da Campolmi e mutuata da Romano, di lasciarli “scrivere” nella loro lingua: Gabriele in “gabrielese”, Archanah in “archanese”, Sami in “samiese” e a seguire tutti gli altri. È stato “l’uovo di Colombo” (Le Bohec – Campolmi 2001), perché in questo modo i bambini si rilassano e si lasciano andare. Nelle prime attività di scrittura attingono, dalle lettere del proprio nome o da quello dei compagni, un repertorio di segni alfabetici utilizzato poi per scrivere nuove parole. All’inizio della prima scrivo tutti i loro nomi su cartoncini plastificati per meglio maneggiarli e li coinvolgo ogni mattina in giochi di riconoscimento del proprio nome e di quello dei compagni. Successivamente, in attività di piccolo gruppo, i nomi vengono scomposti in singole lettere poi assemblate per formare altre parole. In questa fase è importante coinvolgere e spiegare ai genitori la metodologia adottata, chiedendone la collaborazione per valorizzare le produzioni dei bambini e non ostacolare con ingerenze inappropriate, anche se in buona fede, il naturale processo di apprendimento.

A tutto questo è d’aiuto anche il lavoro cooperativo, dove il confronto tra coetanei offre un contributo fondamentale all’evoluzione del processo di apprendimento. Con questa didattica di tipo cooperativo i modelli cognitivi riescono a evolvere perché il bambino può confrontare le proprie scritture non solo con l’adulto ma anche con i coetanei.

All’interno di un gruppo eterogeneo per competenze ho creato spesso piccolisottogruppi per stimolare discussioni partendo dai diversi modi in cui una parola è stata scritta. Questa pratica è molto funzionale alla totalità del gruppo, dove i più esperti accrescono la loro competenza e sviluppano le capacità argomentative fornendo spiegazioni ai compagni, mentre gli errori di quei bambini ancora “lontani” dal codice convenzionale non sono da considerarsi negativi perché fungono da stimolo al confronto e costituiscono un prezioso indicatore del passaggio a evoluzioni successive.

Altro punto fondamentale messo in atto all’interno della classe è la conversazione per rafforzare gli scambi comunicativi. La proposta ripetuta quotidianamente favorisce in modo naturale la partecipazione di tutti i membri del gruppo, anche di quelli più schivi. Va anche detto, tuttavia, che la presenza nel gruppo classe di gravi handicap o di bambini con problemi di concentrazione e iperattività complica un po’ le cose e spesso risulta difficile trovare il giusto equilibrio per un confronto utile. L’attività svolta nell’”angolo morbido” è propedeutica e stimola la ricerca dell’argomento da sviluppare poi nel lavoro individuale. Il testo libero proposto da Freinet, inteso come racconto in forma orale o scritta dei propri vissuti, è stato quindi trasformato in un approccio legato alla narrazione e al racconto. Questo perché i vissuti dei bambini, che abitano in un quartiere degradato come quello in cui è inserita la mia scuola, sono spesso troppo deprivati per poter dare adito a discussioni collettive. La maggior parte di loro trascorre il tempo libero a casa con i videogiochi o presso il vicino centro commerciale. Questo tuttavia non “classifica” i loro vissuti e le loro esperienze come meno ricchi o degni di scarsa considerazione, anche se suggerisce una pratica di mediazione per farli emergere. La strategia che ho adottato è quella della narrazione, con la quale – a partire dalla lettura di un libro – stimolo la discussione chiedendo poi ai bambini di inventare storie o di pensare a un possibile finale alternativo a quello del racconto appena letto. O, ancora meglio, di raccontare qualcosa di personale immedesimandosi nei protagonisti del libro. L’idea di fondo è che, attraverso la creazione di racconti di fantasia, i bambini riescano a verbalizzare, talvolta in maniera inconscia, i propri vissuti, i timori, le gioie e i desideri.

Inoltre, la pratica quotidiana dell’ascolto esercita un ruolo molto importante perché consente di familiarizzare con il
linguaggio scritto, che è un codice autonomo rispetto a quello orale. I testi inizialmente sono proposti in stampato maiuscolo, un carattere che si riscontra spesso nelle scritture spontanee dei bambini prescolari e che permette di accostare il percorso di scrittura. Questo è anche il carattere che viene utilizzato alla lavagna e nella decifrazione dei loro elaborati. Ognuno, una volta pronto, potrà scegliere di utilizzare un altro carattere di scrittura, mentre per la lettura alcuni affrontano lo stampato minuscolo in modo naturale anche molto precocemente.La presenza in classe della biblioteca – nel mio caso plurilingue – offre una scelta molto ampia e stimolante di materiale di lettura e la possibilità di sfogliare i libri, un gesto sempre più raro e spesso assente nel loro ambito familiare. Questo, come tutte le altre “opportunità visive” presenti in aula – cartelloni murali, alfabeti in varie lingue, oggetti targati, materiale cartaceo scritto di vario tipo – sollecita la curiosità verso la lingua scritta e sviluppa la motivazione a porsi domande e a indagare sulle funzioni della scrittura.

Per concludere, una riflessione fatta in quinta da una mia ex alunna, oggi alla scuola secondaria di primo grado, su quando all’inizio della prima gli sforzi erano tutti concentrati per imparare a scrivere: «Sono passati mesi e giorni e ho imparato a scrivere. Prima scrivevo in “ostrogoto”, chiamavamo così in modo simpatico le nostre parole scritte con tante lettere, e questa scrittura era incomprensibile ai grandi. Però a me piaceva perché l’avevo inventato io...».

 

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* maestra di una classe seconda in una scuola di Genova

Questo articolo è stato pubblicato anche su Professione insegnante n. 2 ottobre 2014